La settimana appena conclusa ha portato ad una ulteriore fase di indebolimento degli indici azionari internazionali, con le borse ancora sofferenti. La fase 'toro’ dei mercati vista da metà giugno si è esaurita a Ferragosto, momento in cui le borse hanno prima iniziato a rifiatare dopo il rally rialzista e, successivamente, sono state messe completamente ko dopo l'incontro di Jackson Hole. Un meeting indigesto che è coinciso con un peggioramento sul sentiment economico, un difficile momento in ambito energetico in Europa ed è stato poi appesantito dalla generale sensazione che la problematica dell’inflazione non sia così di immediata soluzione come si poteva prospettare. Un elemento che Powell ha rimarcato nel suo discorso e che le borse hanno iniziato a digerire ma con fatica e disillusione: la seconda metà di agosto ha portato infatti l’indice azionario MSCI World a perdere quasi l’8% e con le borse USA in rapido declino, soprattutto per il settore tecnologico (S&P 500 -8% e Nasdaq -10%). Un modo brusco per portare i mercati ad una view più realistica, con gli investitori accompagnati da dubbi su economia e banche centrali.
La necessaria terapia d’urto che la Federal Reserve ha ‘programmato’ per portare l’inflazione su livelli più contenuti (e al di sotto dei tassi ufficiali) è un’operazione difficile: mai prima d’ora vi era stato infatti un gap così elevato tra il livello del costo della vita ed il tasso FED. In qualche maniera queste due misure si dovranno incontrare nei prossimi trimestri, il punto è come e dove; un altro è con che conseguenze per indici ed economia. Powell, nell’ultimo suo discorso è stato, netto e quasi cattivamente ‘hawkish’, forse per portarsi ‘avanti’ col lavoro ed essere più accomodante in futuro: non ci saranno pause, non ha senso parlare di tagli nel 2023, con ogni probabilità sarà doloroso per l’economia e l’azione sarà simile a quella che affrontò Paul Volcker agli inizi degli anni ’80 per domare l’inflazione da crisi petrolifera. Come nota storica: in quel frangente la Fed riuscì nel suo intento causando le recessioni del 1980 e 1982, con gli indici che anticiparono (-33%) il calo degli utili successivo (in discesa di circa il 25%).
I mercati hanno preso atto della volontà ferrea della Fed di considerare l’inflazione come primo obiettivo (una sorta di ‘whatever it takes’ in stile US), a discapito delle condizioni economiche. Per il meeting di settembre le stime vedono un 60% di un rialzo dei tassi da 0,75%, con invece un 40% di un più modesto 0,50%. Per i mesi successivi il processo continuerebbe (+50 bps e +25 bps nei meeting di novembre e dicembre) fino a giungere ad un top nella prima parte del 2023 in area 3,75% con l’idea che per quel momento l’inflazione sia già in fase calante. Un elemento di anticipazione arriverà il 13 settembre con il rilascio dei nuovi dati sui prezzi al consumo: una conferma di quanto visto ad agosto potrebbe confermare il peaking dell’inflazione. Intanto il mercato del lavoro venerdì è uscito stabile, dando spazio al rimbalzo (momentaneo) delle borse.
Per quanto riguarda invece l’Europa l’emergenza legata all’energia si fa sentire nei dati in fase di rilascio nei diversi paesi. Una problematica diversa da quella degli Stati Uniti (dove è l’economia ad essere surriscaldata) visto che gli ISM europei manifestano già da tempo velleità recessive. Tuttavia la BCE non può restare con le mani in mano e per settembre si è passati rapidamente da ipotesi di rialzo da 0,25% ad altre che stimano anche uno 0,75%. In tutto il mondo, le pressioni delle banche centrali fanno crescere i rendimenti free risk: il decennale americano ha varcato la soglia del 3%, mentre il due anni è volato fino al 3,50%. In Europa il Bund 10Y ha superato l’1,50% mentre il BTP pari scadenza ha ritoccato il 4%. Cala quindi tutto il segmento obbligazionario, con passivi che nel 2022 restano da record per l’asset class.
Per quanto riguarda materie prime e valute, le tendenze della scorsa settimana si sono confermate con commodities piuttosto deboli. Il rialzo dei tassi reali ha penalizzato l’oro (-1,5%) tornato appena quota 1.700 mentre il petrolio solo nel finale d’ottava ha chiuso debole (87$) per via dei timori sulla domanda. Per gli stessi motivi, molto negativo il saldo delle materie prime industriali (-8%). L’Euro ha tentato il ritorno sopra la parità rispetto al Dollaro USA ma con scarso successo.
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