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Analisi dei Mercati Finanziari


La fase di mercato resta improntata ad una certa prudenza da parte degli investitori e l’andamento tecnico dell’indice S&P 500 lo conferma pienamente, con una lateralità che dura ormai da metà giugno. Dopo i minimi fissati poco meno di un mese fa, il principale indice americano si è mosso nel range tra 3.700 e 3.900 punti, andando simmetricamente a rappresentare un momento di borsa di riflessione da parte degli investitori e forse anche di confusione, visti i cambi di direzione delle ultime settimane. Un’incertezza che nasce, da un lato, dal fatto di avere già sul groppone un primo semestre quasi ‘horror’ per le performance che si sono viste (con una discesa che già di per sé suggerisce almeno un parziale recupero del downside) e dall’altro, dal persistere di molti elementi di rischio, quelli attuali legati all’inflazione e quelli in prospettiva relativi invece all’indebolimento dell’attività economica. Non stupisce quindi che sia difficile dare una view a medio termine, visto che di settimana in settimana si vanno ad aggiornare i dati macroeconomici sui quali le banche centrali stanno calando la loro strategia complessiva. In più, negli Stati Uniti, è iniziata la stagione delle trimestrali (finora in chiaroscuro), molto attese per capire come e se si potranno già vedere i primi segnali di un deterioramento degli utili aziendali.


Detto dell’S&P 500 e della ricerca di una stabilizzazione nel breve per poter migliorare i propri tendenziali anche nel medio termine, si ha poi un indice tecnologico Nasdaq 100 che sta faticosamente cercando di mettere le basi sulle macerie del primo semestre (avendo perso nel punto di minimo quasi un terzo del proprio valore). L’indice tech, pur rimanendo in un contesto correttivo, ha cominciato a migliorare la propria forza relativa, anche grazie ad una maggiore distensione sul fronte dei tassi a medio-lungo termine. Lo stop del decennale americano in area 3%-3,30% ha permesso qualche recupero ai titoli growth dopo la pesante sotto-performance degli scorsi mesi.


La situazione tecnica, invece, dell’azionario della zona Euro appare più delicata: l’indice Eurostoxx 50 è tornato sui minimi di febbraio, sollecitandoli pericolosamente. Colpa di un Dax che soffre particolarmente per le problematiche economiche interne della Germania (molto dipendente dalle fonti energetiche russe) ma anche dell’Italia, che ha vissuto una settimana di debolezza a causa dell’apertura della crisi di governo). Il FTSE Mib ha infatti approfondito i minimi sotto quota 21.000, cercando un rimbalzo solo nella giornata di venerdì. Non convincono per nulla i mercati emergenti: crollano i listini cinesi per i nuovi lockdown Covid (-7,8% Hong Kong) ma anche il Brasile e il Sudafrica perdono terreno a causa della discesa delle materie prime.


L’ottava si chiude quindi con un passivo per i principali indici sviluppati (MSCI World -1,3%, S&P -0,9%, Nasdaq 100 -1,2%) ma ben al di sopra dei minimi settimanali, elemento che lascia ancora aperta la possibilità di un recupero nelle prossime settimane. Gli indici USA, dopo aver patito infatti, a causa del rilascio degli alti dati di inflazione, hanno poi ritrovato verve, reagendo alle brutte notizie macro. La volatilità (indice Vix), che in alcuni frangenti dell’ottava, sembrava poter salire con forza, ha poi ridotto le proprie pretese, rimanendo appena la quota bivio in area 25. A livello settoriale, i segni meno hanno colpito tutti i comparti: male l’energy (-3%) che continua la sua fase di flessione legata al petrolio mentre hanno limitato i danni i difensivi come Staples, Health Care e Utilities. Tra i tematici: primi segnali di sedimentazione per i semiconduttori anche se le altre nicchie tech hanno fatto ancora fatica. Rimangono in testa alla classifica year to date le infrastrutture e l’agribusiness.


Le ottave precedenti sono state negative per le materie prime e l’ultima settimana ha completato l’opera, con il basket in calo di oltre il 2%. Profondo rosso per quelle industriali (-6,9%) ma anche per le agricole (-5,5%). Il basket energetico (+1,8%) si salva solo perché al -7% del petrolio (sceso di nuovo in area 96-97) si contrappone il rialzo del gas (+16%). Deboli anche tutti i metalli preziosi, con l’oro appena sopra area 1.700 (-2%). Ribassi delle materie prime tutti collegati alla forza del Dollaro ma soprattutto alla view negativa degli operatori sul ciclo economico.


In ambito tassi/obbligazionario l’appuntamento clou della settimana era rappresentato dal dato di inflazione USA, molto atteso dal mondo finanziario perché da esso dipendono a cascata diversi elementi dei mercati. Rispetto ad un valore atteso del +8,8% (e di un +8,6% di maggio) si è registrato per giugno, infatti, un +9,1%, il livello più alto dal dicembre del 1981, un dato che ha quindi smentito ancora le attese di un picco che tarda però ad avvenire. Il Presidente Biden, che, a causa degli alti valori di inflazione, vede nuvole nere avvicinarsi al momento delle elezioni di novembre, ha affermato che sono dati già ‘superati’ visto che nell’ultimo mese i prezzi dei carburanti sono scesi. Va aggiunto che anche i prezzi di altri beni come metalli industriali e materie prime agricole sono in discesa nelle ultime settimane, rendendo legittimo pensare per alcuni analisti che si possano vedere valori più bassi nei prossimi mesi. Nonostante questi aspetti, la Fed comunque si trova a gestire il problema in ritardo e i valori raggiunti non possono che indirizzare la banca centrale a intervenire ancora con vigore con l’arma dei tassi di interesse e con una politica monetaria restrittiva. Si avvicina il momento del prossimo meeting della Fed, previsto per il 26-27 luglio: i mercati, dopo il dato di inflazione, hanno prezzato non solo la possibilità di un aumento da 75 bps (dato per certo al 100%) ma anche quella di un rialzo record da 100 bps (probabilità al 20%). Tesi che comunque, James Bullard, esponente ‘hawkish’ della Fed ha comunque escluso.


Se la Fed aumentasse i tassi di uno 0,75% a luglio e per una misura identica anche a settembre, si arriverebbe al range 3%-3,25%, anche al di sopra di quanto viene definito dalla stessa banca centrale americana come tasso neutrale (2,5%, ossia quanto atteso nel lungo termine). Una situazione contingente e appositamente predisposta per iniziare a stroncare l’eccesso di inflazione che si è presentato negli ultimi trimestri. Resta però un quadro non semplice da sbrogliare per la Fed, che nella sua storia (tranne che periodo post crisi finanziaria 2009-2014) ha sempre aumentato (a volta anticipando in eccesso) i tassi almeno fino al livello di inflazione corrente: appare evidente che il gap attuale sia il più ampio mai registrato. Interessante analizzare come si sono comportati i tassi in questa settimana: in risalita il tasso a due anni (3,12% ma con un massimo a 3,25%) che riflette la parte breve della curva, mentre il decennale non ha praticamente fatto una piega di fronte al valore di inflazione record. Il rendimento del Treasury a 10 anni, infatti, ha solo fatto finta di risalire sopra il 3%, attestandosi poi più in basso (close a 2,92%). Si potrebbero quindi dire che Wall Street sembra temere meno questi dati (non ci sono stati affondi ribassisti pesanti) ma anche che i Bond Vigilantes sono convinti di una Fed che riuscirà nel suo intento (anche provocando una recessione se necessario).


Anche perché la curva dei tassi mostra un percorso inverso per il 2023, con la Fed che dovrebbe fare retromarcia. Chi vivrà vedrà, insomma! Intanto i titoli governativi ‘sentono’ l’evento e già da qualche settimana cominciano a segnalare il cambio di umore. In settimana positivo infatti il segmento governativo americano ma anche quello della zona Euro: il Bund tedesco ha ripiegato dall’1,35% all’1,13%, ‘aiutato’ anche dalle non brillanti prospettive economiche dell’Eurozona che suggeriscono prudenza alla BCE. Diverso il caso dell’Italia: la crisi di governo riporta il rendimento del BTP verso l’alto, in controtendenza (3,28% in chiusura) e quindi con uno spread in risalita sopra i 200 bps. Piccoli recuperi infine per il corporate investment grade e per l’High Yield, in scia ai segni più visti sull’equity sul finire di settimana. Ancora in calo anche il debito emergente.


In ambito valutario il cambio Euro Dollaro ha raggiunto la parità: troppo forti le dinamiche di politica monetaria della Fed rispetto a quelle della BCE e troppo deboli le prospettive economiche dell’Eurozona. L’Euro perde terreno anche rispetto al Franco Svizzero (cross a 0,985). Torna a recuperare il Rublo mentre il Bitcoin flette (-4,2%) pur senza perdere l’importante area a 20.000 $.


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